Poco o nulla conosciamo circa l'alzato della fabbrica ecclesiale, soprattutto all'esterno. Oltre al tiburio, un altro elemento verticale decorava l'organismo con la sua mole turriforme, il campanile, edificato in linea con il prospetto occidentale della chiesa. Tale struttura, di forma quadrata, più bassa della cupola-tiburio, sorgeva all'interno della navata a cornu Evangelii; la sua intrusione aveva obbligato i costruttori ad eliminare una colonna da questo lato dell'edificio. Con la sua tozza forma quadrangolare, doveva contribuire in misura prevalente a dare un'impressione di monumentalità e di robustezza alla facciata della fabbrica.
La decorazione delle superfici murarie esterne, tutte in opus quadratum, doveva essere movimentata da piatte lesene concluse da archi a pieno centro, sul tipo di quelle che decorano le masse murarie del duomo di Gerace (fine XI secolo). Se ne possono notare le tracce nei ruderi superstiti, e precisamente in un tratto della parete d'ambito settentrionale presso l'attacco del transetto, e nel frammento dell'absidula meridionale. In quest'ultimo elemento sono perfettamente visibili gli esordi di alcune lesene, che con motivo analogo a quello svolgentesi sul dorso dell'abside originale della cattedrale geracese, sono atti a suggerire la decorazione scomparsa, consistente in cinque snelle paraste a tutt'altezza culminanti in archetti a pieno sesto. Tale assetto decorativo doveva ripetersi identico sulle altre absidi e, secondo ritmi più ampi, lungo le pareti laterali della chiesa.
L'abbaziale della Trinità, con la tipica configurazione sopra descritta, costituiva, a motivo della coordinazione innovativa degli spazi che, pur legati a matrici diverse (quella tardo-antica nella navata e quella benedettino - cluniacense nel presbiterio), si unificavano in una originale concezione architettonica, il modello antesignano in Italia meridionale di una serie di impianti ecclesiali legati alle sue soluzioni: i quali, pochi in Calabria (duomi di Mileto e di Gerace; ma che sappiamo delle altre chiese vescovili, tutte scomparse, sorte a Nicastro, a Nicotera, a S. Marco Argentano, a Squillace, a Catanzaro,a Scalea, ecc.?), sono più numerosi in Sicilia (duomi di Mazara del Vallo, di Catania, di Messina, di Cefalù e di Monreale).
Recenti rinvenimenti hanno consentito di collegare anche il duomo di Mileto con la soluzione sperimentata per la prima volta nella vicina abbaziale benedettina.
La cattedrale, dopo il palatium e l'abbazia, era la terza delle fabbriche - mediante le quali Ruggero I aveva manifestato il suo favore verso il suo luogo di residenza. Non conosciamo l'anno della consacrazione, ma è da supporre che la sua costruzione non si sia protratta molto a lungo dopo l'istituzione della cattedra vescovile (1081 ca) sia perché non era un edificio di dimensioni molto imponenti, sia perché considerazioni di natura affettiva ci fanno ritenere che il suo fondatore non avrebbe tollerato che la sede episcopale di recente fondazione, dovuta principalmente alle sue premure, rimanesse troppo tempo sguarnita di una propria cattedrale.
I ruderi della zona absidale esistenti sub divo e i due schizzi planimetrici contenuti nel manoscritto del Napolione, mentre consentono la restituzione ideale dell'edificio, fanno sì che sia anche possibile dare una coerente interpretazione del monumento e conseguentemente ricondurla alla sua originaria concezione.
La chiesa era una non molto vasta costruzione basilicale, con il corpo longitudinale spartito in tre navate da due teorie di colonnine geminate (quattro coppie di sostegni su ciascun lato) introdotte presso l'ingresso da due sostegni più massicci isolati. I diciotto appoggi, privi di basi, erano tutti monolitici e quasi tutti in granito grigio e su di essi insistevano, secondo la testimonianza del Napolione, degli archi acuti, dal che si può supporre un discreto slancio verticale dell'edificio. La copertura doveva essere in rispondenza con l'atmosfera tardo-antica dell'interno; infatti era originariamente costituita da un tetto continuo con capriate in vista; al contrario della Trinità, sulla crociera non vi era il tiburio, ed il campanile era originariamente costituito da una torre separata da corpo della chiesa, quindi successivamente innalzato a vela sulla parete della facciata occidentale.
All'insieme del corpo trinavato si annetteva ad est la zona presbiteriale a gradoni, di chiara impronta normanna, comprendente un transetto sporgente ed un coro centrale non molto profondo concluso da un'ampia abside e affiancato da altre due absidi minori alquanto arretrate, precedute da due ambienti molto corti; tale configurazione costituiva una variante ridotta dello schema benedettino, non rendendosi forse in origine necessaria una pluralità di altari come per le costruzioni monastiche.
Le dimensioni dell'edificio, ipoteticamente ricostruite, erano le seguenti: ml 42 circa per la lunghezza totale della chiesa, escluso l'atrio antistante; ml. 26 per la lunghezza della parte longitudinale; la navata mediana era larga circa ml 7,50, e ciascuna delle navi laterali ml 2,80 circa. Tali misure rispetto a quelle davvero imponenti della Trinità, ci suggeriscono una fabbrica di non eccessive pretese.
Eccezionale soluzione linguistica è, invece, da ritenersi l'impiego dei sostegni binati nei colonnati: rarissimo esempio in tutta l'architettura chiesastico-romanica se si esclude qualche chiostro monastico (un altro solo esempio è presente nell'architettura romanica centro-meridionale, ed è rappresentato dal duomo di Trani, in Puglia). Essa non va spiegata, come suggerisce lo studioso tedesco H.M. Schwarz, con l'indisponibilità di elementi di appoggio più resistenti, bensì con una scelta stilistica riconducibile ai sistemi compositivi tardo-antichi di derivazione nord-africana e scaturente da esigenze di ordine figurativo oltre che strutturale. I due colonnati su cui, come si è detto, insistevano archi acuti, avevano sei valichi per parte, con un interasse fra coppia e coppia di circa ml 4,20. La presenza degli archi acuti in questo punto della Calabria è spiegabile solo con apporti arabi mediati dalla stessa corte di Ruggero, il quale stava per completare la campagna di conquista della Sicilia: sappiamo dal Malaterra e dagli scrittori arabi tradotti da Michele Amari che nel palazzo di Mileto il gran Conte ricevette numerose delegazioni di musulmani. Potrebbe tuttavia correlarsi a soluzioni analoghe presenti nell'architettura campana e siciliana, anch'esse però messe in rapporto con consuetudini arabe.
Non poche sono le dissimiglianze nei confronti della vicina abbaziale, da cui abbiamo visto dipendere l'organismo vescovile per l'assetto icnografico generale; ma se questo diverge da quella per l'assenza della cupola, per la riduzione dei cori presbiteriali, per la novità dei sostegni accoppiati, per la presenza degli archi acuti, per il mancato allineamento delle navate minori con gli invasi dei cori laterali, ad essa tuttavia si ricollega per averne accolta la tematica di fondo consistente nella fusione pienamente risolta dei due corpi maggiori di diversa ascendenza: transalpina, quella del sancta sanctorum, e tardo-romana quella delle navate. Come per la Trinità, il momento di più alto significato non consiste tanto nel fatto che nella cattedrale siano presenti due lezioni culturalmente distinte, quanto piuttosto nel fatto che in entrambe le chiese esse siano riproposte in una combinazione nuova ed originale, mai sperimentata prima.
Entrambe le fabbriche avevano una cospicua decorazione sculturale e architettonica, la maggior parte della quale era di origine classica, romana. La località di provenienza di tale materiale di riporto è stata da sempre individuata nell'antica Hipponium (Vibo Valentia), scomparso centro romano prossimo alla cittadina miletese, ricco di monumenti in stato di abbandono in età normanna, e pertanto spogliato dei suoi marmi (tempio di Proserpina e numerosi altri templi ed edifici pubblici). Un discreto numero di colonne doveva però provenire da locali cave di granito, mentre altro materiale, oltre a colonne di dimensioni più modeste, potrebbe essere stato prelevato dalla villa romana (ascritta agli inizi del II sec. d.C.) scoperta in Mileto nel 1939, e non completamente esplorata.
Accanto al materiale d'età classica, vi era però nelle due fabbriche miletesi anche una notevole decorazione plastica pertinente al linguaggio romanico. Ne sono prova i numerosi reperti conservati presso il locale museo statale o presso piccole collezioni private cittadine. Fra le cose più rappresentative, alcuni capitelli a gruccia ed un rilievo con figura di basilisco, originariamente frammento di portale. Quest'ultimo offre qualche generica possibilità di rimandi alla plastica pugliese contemporanea, anche se di fronte ai livelli di raffinatezza e di maturità raggiunti da quella il rilievo miletese si qualifica per una certa durezza ed arcaicità elementare dei mezzi espressivi. Molto più rifiniti ed elaborati invece i capitelli a stampella; specialmente quello che su una delle facce presenta, in un rilievo vigorosamente modellato, una leonessa in atto di azzannare una volpe acquattata, rivela doti di finezza espressiva degne della migliore plastica romanica, pugliese o siciliana.
Dal punto di vista della cronologia, la fondazione della cattedra vescovile di Mileto è caratterizzata, così come succede per tant'altre chiese calabresi, da dubbi e incertezze, essendo andati perduti in gran parte i documenti originali o risultando manipolati quasi tutti quelli che sono pervenuti fino a noi. In ogni modo, le vicende che sono all'origine dell'istituzione possono, con una certa attendibilità, essere riassunte come segue.
Nella riorganizzazione dei distretti ecclesiastici conseguente alle scorrerie dei Longobardi e alle incursioni dei saraceni che avevano provocato la distruzione delle chiese e la quasi totale scomparsa delle cattedre vescovili, i normanni ridiedero vita e nuovo impulso alla Chiesa calabrese, ripristinando o ristrutturandone le diocesi e allo stesso tempo sottraendole all'autorità di Bisanzio per riportarle sotto quella di Roma. Si venne così a determinare uno scenario nuovo. In tale quadro rinnovato, per ciò che concerne la Calabria centrale tirrenica, la diocesi di Nicotera risultava ricostituita e aggregata a Reggio Calabria, Nicastro riconfermata suffraganea di Reggio, Amantea e Tropea fuse in una unica diocesi con sede a Tropea, Taureana e Vibona, devastate dai Saraceni rispettivamente nel 951 e nel 983, trasferite ed aggregate in tempi successivi alla chiesa miletese sotto l'unico e nuovo titolo di diocesi di Mileto.
Quando e come avveniva ciò? Poiché il primo atto di cui siamo in possesso è la bolla Supernae miserationis respectu del 1081, indirizzata da Gregorio VII al primo vescovo miletese, Arnolfo, con la quale, ad istanza del conte Ruggero "filio nostro Rogerio glorioso Comite rogante"), veniva convalidato e ratificato il trasferimento della diocesi da Vibona a Mileto, è da presumere che il trasferimento sia avvenuto, ad opera dello stesso Conte, qualche tempo prima. Difatti, anteriormente all'emanazione della bolla citata, si era dovuta risolvere la vertenza sorta fra la S. Sede e Ruggero intorno a chi spettasse consacrare i primi eletti delle nuove chiese di Mileto e di Troina. Poiché Vibona era chiesa suffraganea di Reggio C., per quanto riguarda Mileto, che di Vibona era erede, la questione era se il nuovo vescovo dovesse essere consacrato dal metropolita reggino o potesse invece essere consacrato dal pontefice. Gregorio VII scrisse perciò al Conte una lettera databile ai primi del 1081, Non dubitet prudentia tua, comunicandogli di aver affidato la soluzione della vertenza a una commissione composta da Ursone, arcivescovo di Bari, da Ugone, vescovo di Fermo, e da un Legato Apostolico. La decisione fu con tutta evidenza a favore della consacrazione papale, per cui il pontefice sanzionò subito la traslazione della sede a Mileto, stabilendo che i suoi vescovi dovessero essere sempre consacrati da Roma e restare immediatamente soggetti alla S. Sede. Dopo il 1081, si verificò l'aggregazione di Taureana, in epoca imprecisata, ma comunque prima del 1086, anno in cui il conte Ruggero rilasciava il suo "Privilegio" di dotazione della nuova diocesi, designato come "Sigillum aureum", nel quale risultano già traslate a Mileto tanto Vibo quanto Tauriana. L’incorporazione di Tauriana a Mileto venne riconosciuta da parte del papa Urbano II nel 1093 con il Breve Potestaten ligandi. Nel frattempo, Ruggero e Urbano II si erano incontrati due volte: nel 1088, a Troina, e, nel 1091, nella stessa Mileto; in tali incontri avranno avuto nodo di confermare le disposizioni riguardanti la nuova diocesi nonché l'esenzione nullius diocesis della Trinità che era stata creata nel frattempo.
Altre bolle papali si susseguirono negli anni seguenti a confermare la costituzione della cattedra miletese con i suoi privilegi, ribadendo soprattutto l'esenzione del vescovo da ogni metropolita e l'immediata soggezione alla cattedra di Pietro: affermazioni, queste, presenti già nella Supernae miserationis respectu come si evince perentoriamente dal Breve Officii nostri di Callisto II del 1122 indirizzato al vescovo Goffredo II (1119-1130): "con la forza del presente privilegio sanciamo che la chiesa di Mileto continui a restare in modo speciale sotto la giurisdizione della Sede Apostolica, e tutti i tuoi successori, come te e i tuoi predecessori, siano consacrati per mano del Romano Pontefice".
Non sono noti i confini precisi delle scomparse diocesi di Vibona e Taureana, mentre il territorio della nuova chiesa, come viene presentato nel Sigillum aureum, è fissato "dal distretto di Maida fino a Reggio". Nel diploma ruggeriano sono elencati tutti i possedimenti e la popolazione servile in dotazione alla nuova diocesi. La descrizione dei suoi confini era contenuta in una platea, purtroppo perduta, del 1570, fatta rogare dal vescovo Inico d'Avalos d'Aragona (1566-1573); essa tuttavia è pervenuta fino a noi in quanto è stata raccolta e trascritta da U.M. Napolione nelle sue "Memorie" settecentesche. E da supporre che quelli siano stati i confini della diocesi fin dalla sua fondazione; come tali si mantennero fino al 1979. Essi sono visualizzati nel Foglio III del libro Rationes Decimarum Italiae di D. Vendola.
Una rete, quasi altrettanto vasta, di chiese e di possedimenti terrieri appartenenti all'abbazia benedettina della SS. Trinità si affiancava al patrimonio della chiesa vescovile, con la quale l'istituzione monastica, come vedremo, entrò presto in conflitto.
La Trinità era stata fondata dallo stesso conte Ruggero anteriormente alla cattedra vescovile, fra il 1062 e il 1070; la chiesa annessa fu consacrata il 29 dicembre 1080 dall'arcivescovo Arnolfo di Cosenza (o di Reggio Cal., secondo alcuni storici). Nei suoi primi anni di vita costituì un priorato dipendente dalla casa madre di Santa Maria di Sant'Eufemia, ed era retta da Guglielmo, monaco di origine normanna che aveva preso l'abito proprio nell'abbazia del golfo lametino; ben presto però venne distaccata da Sant' Eufemia per essere posta direttamente sotto la protezione della S. Sede con la bolla del 1098 di Urbano II diretta all'abate Urso. Fu subito arricchita di numerose donazioni, dipendenze e privilegi dallo stesso fondatore e da altri baroni normanni (in particolare dai Conclubet), sì che in breve tempo, in virtù dei diritti feudali acquisiti, divenne la più potente fondazione monastica latina di tutta la Calabria meridionale. Tale patrimonio, convalidato da Urbano II nella stessa bolla del 1093, fu confermato successivamente da Pasquale II nel 1101, da Callisto II nel 1122 e da Alessandro II nel 1170 e nel 1179. Nel luglio del 1101 Pasquale II era a Mileto, per condolersi con la corte normanna della morte del Conte; in tale occasione venne fatta una solenne riconsacrazione della chiesa abbaziale. Il vecchio Conte giaceva ormai da quasi un mese nel suo sarcofago, collocato accanto a quello della seconda moglie, Eremburga, nella navata destra di quella chiesa che egli aveva voluto che venisse innalzata in forme grandiose perché vi fossero custoditi i mausolei della propria famiglia.
Distrutto dal terremoto del 1659, il monastero veniva riedificato, fra il 1660 e il 1698, secondo un piano meno ambizioso dell'impianto normanno. Il sisma del 1783 ne decretava la definitiva scomparsa.
Si sono conservati fino ai giorni nostri, nonostante i rigori del tempo e le continue delapidazioni, non scarsi ruderi pertinenti alle due fasi del complesso monastico; alle testimonianze monumentali si affiancano alcuni disegni planimetrici del XVI e del XVII secolo, custoditi presso il Pontificio Collegio Greco di Roma, riproducenti il monastero nella sua fase pre-terremotale (il primo di questi disegni è datato 1581) ed in quella settecentesca, che hanno consentito ai ricostruire graficamente la pianta dei due organismi architettonici che si sono succeduti nel tempo.
Morto il Conte, trasferita la capitale da Mileto a Messina prima e, quindi, a Palermo dalla reggente Adelaide, ebbe inizio il lento declino della cittadina; le controversie, sia quelle intestine, fra vescovi e abati, sia quelle esterne, fra istituzioni cittadine e signori feudali, certo non giovarono a mantenere il prestigio raggiunto quando era alla guida della provincia Melitana. Mileto restò per qualche decennio ancora solo quale meta di pellegrinaggio di Ruggero II e della sua corte in quanto nella chiesa abbaziale erano custodite le tombe del fondatore della dinastia e dei suoi familiari.
Tramontato lo splendore della corte normanna, vescovado e abbazia tuttavia mantennero nel corso dei secoli una posizione fra le più eminenti in seno alla Calabria per la consistenza dei rispettivi patrimoni, per i privilegi, il potere e l'influenza di cui continuarono a godere fra tutte le istituzioni dell'Italia meridionale e insulare. Sul finire del XII secolo, fu tra le mura della Trinità che Riccardo Cuor di Leone, re d'Inghilterra, scelse di sostare quando, nell'autunno del 1191, attraversò il Sud della penisola in viaggio per la terza crociata in Terrasanta. In quell'anno si conservava ancora la turris lignea della quale si era servito il Guiscardo per espugnare il castello e la Città.
Ma un complesso economico - agrario così vasto come quello dei benedettini, con esenzioni, diritti e prerogative tanto ampie, non poteva non porsi in concorrenza con i feudatari laici del territorio, ma non poteva neppure non destare le gelosie degli stessi vescovi miletesi, con i quali gli abati vennero non di rado a contrasto a causa dei rispettivi diritti. Del resto, era fatale che accadesse: Mileto era contemporaneamente sottoposta alla giurisdizione vescovile ed a quella abbaziale, e gli ordinari diocesani non tolleravano quella che consideravano una diminuzione della loro autorità a causa dello straripante potere civile e religioso degli abati che andava estendendosi sempre di più in Calabria e in Sicilia. L'esenzione dell'abbazia equivaleva in sostanza alla creazione di una nuova diocesi all'intemo di un'altra diocesi.
La stessa divergenza delle due zone emergenti, dislocate come lontane quinte verso le punte estreme della cittadina, ostentava visivamente la separazione ecclesiastico-giurisdizionale che contrapponeva i suoi abitanti fra i due diversi ambiti d'influenza. Così come fin dal loro primo affermarsi avevano costituito dei poli d'aggregazione del tessuto edilizio, trovando riscontro e proiezione sia nelle condizioni orografiche del luogo che nella estrinsecazione linguistica delle architetture, allo stesso tempo si erano pure risolte, come per una conseguenza più che naturale, in funzione di contrasto fra i ruoli delle stesse istituzioni, con il coinvolgimento territoriale e spirituale di tutta la cittadinanza.
Questa bipolarità costituì, pertanto, la più chiara espressione paradigmatica dell'antinomia che caratterizzò i rapporti intercorrenti fra le due massime autorità religiose, e vide vescovi e abati coinvolti in una lotta plurisecolare a difesa dei rispettivi privilegi giurisdizionali o per il possesso di beni da annettere alle rispettive diocesi. Il conflitto - che si concluderà in due tempi: nel 1717, con la sconfitta dell'istituzione monastica, la quale verrà aggregata alla mensa vescovile, e nel 1766, con l'assegnazione dei suoi beni esistenti fuori del territorio di Mileto all'Accademia delle Scienze di Napoli informò di sé, si può dire, quasi tutta la storia cittadina. Come se non bastasse, è ancora da tener presente la gran mole di liti che la Trinità sostenne con altre fondazioni latine. Come è noto, infatti, Ruggero aveva offerto ad altri ordini la possibilità d'insediarsi nella zona: e così un gruppo di canonici regolari agostiniani aveva fondato a Bagnara l'abbazia di S. Maria dei XII Apostoli, e S. Bruno di Colonia una certosa in mezzo ai boschi delle Serre, S. Stefano del Bosco. I benedettini miletesi si sentirono presto minacciati nei privilegi che derivavano loro da un diritto di priorità, giungendo fino a considerare come un furto qualsiasi altro contributo materiale assegnato a quelle istituzioni; lamentando continui sconfinamenti o usurpazioni territoriali da parte di quelle, accesero una sequenza di processi che tenne per secoli impegnati i tribunali ecclesiastici e civili. Furono tali contese, tristemente note, una delle cause principali del progressivo declino del monastero. Se, fino a tutto il XII secolo, i papi erano stati larghi di donazioni e privilegi verso la comunità, nel corso del secolo successivo invece dovettero intervenire non di rado, con lettere e legazioni, per appianare ora l'una ora l'altra controversia. Le liti iniziali più aspre furono quelle che videro la Trinità opposta, per motivi di carattere teologico e morale, all'abbazia greca di Rossano, S. Maria del Patir, il cui fondatore, Bartolomeo di Simeri, venne accusato di concussione e di eresia; e quella giurisdizionale sostenuta con il vescovo di Mileto circa l'appartenenza del Borgonovo, poi detto Monteleone (oggi Vibo Valentia), che l'imperatore Federico II - aveva ordinato al secreto Matteo Marcafaba di far sorgere su alcuni terreni che ricadevano sotto la giurisdizione dell'abbazia.
Le liti che coinvolsero la Trinità non finiscono qui. I vescovi di Mileto, sempre meno propensi a tollerare che l'abbazia si sottraesse alla loro giurisdizione, per lunghi secoli si sforzarono di recuperare, strappandolo all'abate rivale, tutto il prestigio perduto. Donde una spirale senza fine di liti, di diatribe e di cause, accese sui diritti d'uso e sulle reciproche competenze, in cui, da una parte, i vescovi sollecitavano dalla Curia di Roma la soppressione della diocesi abbaziale e, dall'altra, gli abati si arroccavano sempre di più sulle proprie posizioni per mantenere intatti tutti i loro privilegi. Non valeva certo a sedare il focolaio dell'incendio la bolla del 1179 di Innocenzo III che concedeva a Imberto, abate della Trinità, di poter fare uso di mitria e anello pastorale. A nulla valsero i tentativi della Sede Apostolica di por termine alla lotta intestina; le rivendicazioni aumentavano, gli incartamenti processuali si moltiplicavano e, in questa infuocata temperie, dall'una e dall'altra parte vennero persino compilati numerosi falsi pur di prevalere sulla parte avversa.
Una succinta esemplificazione delle altre liti, oltre a quella per la giurisdizione su Monteleone, conferma il fatto che, finché fu in piedi la SS. Trinità, entrambe le istituzioni non godettero fama di buon vicinato. La prima nacque al tempo del vescovo Ugo (1104 - 1110) intorno al possesso di alcuni territori e costrinse Pasquale II a ordinare a Lanuino, priore della certosa di S. Stefano del Bosco, di intervenire per riappacificare il vescovo e l'abate. Una ripresa delle liti si ha con il vescovo Anselmo (1168-1181) nei confronti dell'abate Imberto circa la giurisdizione di alcune chiese poste dentro la stessa cerchia di Mileto, ed alcuni villaggi del territorio (S. Gregorio, Cramastà, Arzona, Castellario e Bivona) e ad alcuni possedimenti e tonnare ricadenti nei territori delle diocesi di Mileto e di Squillace lite conclusasi con una transazione sanzionata da Alessandro III nel 1181. E poi, nel 1220 che Onorio III è costretto ad intervenire per dirimere la vertenza sorta tra il vescovo Ruggero (1216-1233) e l'abate del monastero di Valle Josaphat per il possesso della chiesa di S.Lorenzo di Arena. E, ancora, si trascinava virulenta la contesa su Monteleone e casali circostanti, contesa che andò avanti con alterne vicende finché nel 1287 il vescovo Saba Malaspina e l'abate del tempo, Ruggero, giunsero ad una convenzione, in base alla quale l'abbazia conservava "iura spiritualia casalium S. Gregrori, Cramestii, Bibonis et Larzonis", mentre il vescovo acquistava ogni diritto su Monteleone e sul suo territorio.
Con tale contesa siamo già entrati nel torbido e agitato periodo svevo. Le lotte che, alla morte di Guglielmo il Buono, si accesero fra i re usurpatori Tancredi e Guglielmo III ed Enrico VI e successivamente fra i capi tedeschi e l'imperatrice Costanza ebbero le loro ripercussioni anche in provincia, tra feudatari e istituzioni ecclesiastiche. Perturbazioni e usurpazioni si perpetrarono anche ai danni della chiesa di Mileto ai tempi dei vescovi Giovanni (1196-1198) e Nicola (1198-1207?). Più grave fu l'attacco portato alla cattedra miletese dal conte Anfuso di Rota di Tropea che, approfittando della vacanza seguita alla morte del vescovo Nicola, insieme con il fratello Riccardo, si rese colpevole di gravi soprusi, come quello di impadronirsi della torre campanaria della cattedrale nonché di alcune abitazioni appartenenti al vescovo ed ai canonici, e di altre prevaricazioni ancora più intollerabili come la distruzione del feudo di Karna e l'imprigionamento di alcuni canonici fatto a scopo ricattatorio. Il vescovo Pietro (1207 ?-1215) si rivolse allora al papa, Innocenzo III, che in data 27 agosto 1207 scrisse a Luca Campano, arcivescovo di Cosenza, e a Filippo, vescovo di Martirano, ordinando che intervenissero a reintegrare il vescovo miletese nei suoi diritti, pena la scomunica da comminare a entrambi i Conti.
Il periodo svevo, così come il suo inizio era stato segnato a caratteri di sangue, si concludeva con gli anni burrascosi seguiti alla morte di Federico II, alla venuta di Carlo d'Angiò e alle guerre con Corradino e Manfredi. In quegli anni sedeva sulla cattedra di Mileto Domenico I (1252-1281), che si trovò coinvolto nelle vicende politiche per aver aderito alla reggenza di Manfredi e per aver accettato l'invito - per paura, come lui stesso ebbe a confessare - a presenziare alla sua incoronazione a Palermo nel 1258, anche se poi effettivamente si astenne dal prendere parte alla cerimonia. Fu per questo che Alessandro IV lo esentò dalle sanzioni comminate nei confronti di coloro che avevano partecipato all'incoronazione. Morto però Manfredi (1266), ancora a motivo dei suoi rapporti con i partigiani dello stesso, venne sospeso dalle funzioni episcopali, per essere infine riabilitato da Gregorio X nel 1274. Successivamente il prelato parteggiò per gli angioini, tanto che Carlo I ne difese i diritti, confermando la giurisdizione spirituale dell'ordinario miletese sul territorio di Monteleone ancora in contrasto con la Trinità.Con questo vescovo siamo nel frattempo scivolati oltre le soglie del periodo angioino. Tale lunga fase della storia italiana (1266-1442), che fu contrassegnata da sanguinose vicende come la ventennale Guerra del Vespro (1282-1302) - che pose la Calabria al centro delle lotte e delle devastazioni - dalla lunga ed estenuante lotta fra Angioni ed Aragonesi, e da laceranti crisi come lo Scisma d'Occidente (1378 - 1417), vide sul soglio della cattedra miletese alcune vigorose figure di prelati, fra cui si distinsero Saba Malaspina (1286-1298), Manfredi Giffone (1311-1328) e Goffredo Fazzari (1328-1348). Al contempo registrò, a metà del XIV secolo, un episodio di mecenatismo alla corte dei Sanseverino, conti di Mileto, che consentì il prodursi di una delle più originali espressioni artistiche nell'ambito della scultura trecentesca.
Per quasi un secolo la Calabria fu teatro dello scontro fra Angioini e Aragonesi, scontro che, iniziatosi dopo la sollevazione del Vespro del 31 marzo 1282, aveva per posta il possesso definitivo della Sicilia. Durante tale conflitto, la città di Mileto, come del resto qualsiasi altro centro importante della Calabria, fu di volta in volta favorevole al partito angioino oppure a quello aragonese. "Anche l'alto clero", scrive A. Placanica, "aveva partecipato e partecipava in prima linea al conflitto: dall'arcivescovo Ruggero di Stefanizia che contrastava i siculo- aragonesi difendendo con le armi Santa Severina, al vescovo di Cosenza che aveva ostacolato lo schieramento svevo sino alla morte di Manfredi, dal vescovo di Martirano che veniva fatto prigioniero durante l'assedio di Augusta, al decano di Mileto Saba Malaspina (poi autore della celebre Rerum Sicularum Historia), preso prigioniero durante l'occupazione della città, e che di quei tristi tempì di Calabria avrebbe lasciato traccia vivacissima nella sua opera, con uno scrupolo appena velato dal fondamentale guelfismo".Saba, decano del capitolo, venne eletto vescovo di Mileto nel 1286, quando già aveva composto l'Historia. Quando le truppe catalane occuparono la cittadina, egli venne privato di tutto e catturato. Riuscito ad evadere e a rifugiarsi nei territori controllati dagli angioini, fu soccorso dal papa Nicolò Il che gli assegnò l'amministrazione della diocesi di Larino. Nel 1296, in seguito all'ordine di Bonifacio VIII che imponeva a tutti i vescovi esuli del Regno di Sicilia di accettare la pace e di riconoscere Carlo III d'Angiò per re di Napoli e Giacomo d'Aragona per re di Sicilia, rientrò nella sua sede. Durante il governo di Saba si ebbe, come si è precedentemente accennato, la definitiva soluzione della vertenza circa la giurisdizione spirituale su Monteleone ed altri villaggi della diocesi, per la quale Monteleone rimase da allora in poi in pacifica giurisdizione del vescovo di Mileto.Altre beghe di natura giurisdizionale dovette sopportare il vescovo Manfredi Giffone con l'abate della Trinità, e i litigi, sorti per varie cause, ebbero ripercussione presso la corte di Napoli, finché nel 1319 il papa Giovanni XVII non incaricò il vescovo di Tropea di comporre la vertenza. Ma la figura di questo prelato, persona ragguardevole e influente, di nobile famiglia, è nota per le vicende legate alla sua contrastata elezione alla cattedra di Mileto. Manfredi, in quanto antiangioino, era inviso al re Carlo II, il quale, perciò, respinse la designazione fatta dal capitolo della cattedrale di Mileto, in virtù di una concessione generale avuta dal papa Niccolò IV di poter rifiutare il suo beneplacito a chiunque non fosse a lui fedele. Venne pertanto eletto, in luogo di Manfredi, Andrea, che fu vescovo dal 1298 al 1312. Morto Andrea e succeduto nel frattempo a Carlo il re Roberto d'Angiò (1309-1343), venne nuovamente designato il Giffone, il quale, per conto suo, si era già avvicinato al partito angioino. Manfredi fu quindi ordinato ad Avignone, ed è probabile che, unico prelato calabrese, abbia preso parte al Concilio di Vienna dell'ottobre del 1311.Risale a questi anni (anteriormente al 1337) l'assegnazione della contea di Mileto a Ruggero Sanseverino fatta da Roberto d'Angiò in riconoscimento dei servigi e delle prestazioni da quello offertigli. Lo stesso re annoverava tra i suoi consiglieri e confidenti il miletese Goffredo Fazzari; dopo la morte del re, questi, nel disordine e nel caos verificatisi durante gli anni della minore età di Giovanna I, divenne sostituto e consigliere del balio del regno, cardinale Almerico di Chatelus. Nel 1328, venne elevato alla cattedra vescovile miletese, che resse per un ventennio, e durante il suo episcopato ebbe diversi incarichi dalla regina Giovanna e dal papa Clemente VI.
Del Fazzari si conservano, nel museo di Mileto, cospicue testimonianze provenienti dal portale maggiore della cattedrale, che egli fece decorare, intorno al 1345, dal maestro Antonio di Napoli, nonché la propria lastra sepolcrale ad altorilievo, eseguita nel 1339 ed attribuibile, a parere di A. Negri Arnoldi, al c.d. Maestro di Mileto, il quale, attorno agli anni 1330-1340, lavorava ai sarcofago dei Sanseverino.Ruggero Sanseverino aveva fatto costruire una graziosa cappelletta, collegata direttamente con l'abside maggiore della cattedrale, dedicandola alla SS. Annunziata; questa era destinata a custodire i sarcofago che avrebbero dovuto accogliere le proprie spoglie mortali nonché quelle della prima moglie, Giovanna d'Aquino, ma che invece vennero poi utilizzati per altri membri della casata.
I due sarcofagi sono pervenuti fino a noi in forme frammentarie, e attualmente, dopo essere stati ricomposti, sono esposti nel museo statale. Del sarcofago di Ruggero si conservano una lastra frontale con la Vergine e cinque Santi (originariamente sei), una lastra con cavaliere giacente e tre figure acefale di Virtù; al monumento di Giovanna appartengono la lastra frontale con il Cristo in pietà e quattro Santi, ed una laterale con una Santa martire. La figura del Maestro di Mileto è caratterizzata da una forte personalità, di formazione locale, ed è stata individuata e studiata dal Negri Arnoldi, che ne ha sagacemente indagato e ricostruito il percorso artistico, svoltosi fra Catania e Mileto e forse conclusosi a Napoli". Il Maestro, pur denotando una cultura statica ed arcaizzante, si rivela dotato di una precisa individualità artistica, certo non eccelsa, ma connotata da uno stile robusto ed originale. L'ultima fase del periodo angioino fu segnata da vicende tristemente negative. La fine dello Scisma (1417) non segnò la fine dei mali che travagliavano in questi anni la chiesa. Ai soprusi del baronaggio si aggiunsero altre piaghe, quali l'introduzione della commenda, che si rivelò esiziale per i monasteri e i conventi, e la concessione delle diocesi in amministrazione a prelati di curia non residenti- fenomeni che divennero frequenti a partire dalla seconda metà del Quattrocento. Il panorama della Calabria sotto l'aspetto politico e socioeconomico acquistò tinte drammatiche, nonostante la lieve ripresa sotto Alfonso il Magnanimo (1442-1458), per l'eccessivo fiscalismo stabilitosi con Ferrante I (1458-1494) e per i tralignamenti del potere inarrestabile dei baroni che in questo periodo aveva raggiunto il suo culmine.
Durante la congiura dei Baroni (1485-87), i Sanseverino dei vari rami di Calabria, Mileto inclusa (Carlo Sanseverino, conte di Mileto, era fra i più attivi), costituirono una delle forze maggiori dei congiurati. Nella repressione sanguinosa che seguì al fallimento della congiura, la città di Mileto subì la stessa sorte delle città che si erano ribellate alla Casa d'Aragona, registrando nella sua cerchia nuove violenze e nuove efferatezza dopo quelle che si erano avute a partire soprattutto dal 1420, quando il contado miletese era stato messo a ferro e fuoco dai soldati di Giovanna I, e continuarono via via con le vicende rivoltose dei Centelles.In tutto questo periodo, l'estrema decadenza dei monasteri greci è affrescata nella sua degradante rovina materiale e morale da A. Calceopi1o che li visitò negli anni 1457-58; non altrettanto ma pure notevole è la decadenza raggiunta dai monasteri latini, divorati dai commendatari che li spogliavano dei beni e abbandonavano i monaci alla miseria e all'ignoranza, e quella delle chiese vescovili, condannate ad un governo di amministratori lontani e avidi solo di benefici e commende. Così, nel novero dei vescovi miletesi di questi anni, solo A. Sorbilli (1437-1464) visse a Mileto e si occupò fattivamente della diocesi, istituendo una scuola di grammatica e di canto per 12 fanciulli prefigurando la formazione di un seminario in anticipo rispetto al Concilio di Trento.Se Domenico II (1408-1437) fu a Mileto soltanto per brevi soste, perché trattenuto lontano dalla diocesi a causa delle vicende provocate dallo Scisma ma anche perché incaricato di portare a compimento missioni apostoliche varie, altri ne vissero del tutto lontani: Corrado Caracciolo (1402-1408) pare che non abbia mai messo piede in territorio miletese; di Cesare Caetano (1464-1473), consigliere del re Ferdinando d'Aragona, e di Narciso di Verduno (1473-1477) è pure dubbio se siano venuti personalmente in diocesi e altrettanto può dirsi di Antonio de Pazzi (1477-1480), fiorentino, impegnato a dare la caccia ai benefici ecclesiastici; per finire con Giacomo della Rovere (1480-1504), nipote del papa omonimo, del quale si può ugualmente affermare che abbia poco dimorato in diocesi.Unica, grande luce per la città di Mileto fu in questo triste cinquantennio, sul piano artistico, la luminosa dilatazione che traspare dalle forme spaziose e chiare della Madonna delle pere di Paolo di Ciacio (ora nel museo di Altomonte), nativo di Mileto ed allievo di Antonello da Messina intorno al 1457, che appunto da una delle opere più culturalmente progredite del maestro seppe prendere le mosse per questa stupenda tavola. Ma questa sola luce non ha nulla a che vedere con la trama di ombre che in questo periodo oscura la cattedra vescovile miletese e, con essa, la Calabria intera.